sabato 12 novembre 2011

Luigi Dinardo-Non aver paura di essere diverso

Ciao a tutti e buon sabato sera! Nel lontano 2007 ho scritto un romanzo. Ho deciso di proporlo qui sul blog un pò alla volta (un romanzo a puntate). Spero che vi piaccia. Fatemi sapere cosa ne pensate. Saluti!
Ecco i primi due capitoli!


1
Dilemmi esistenziali

Tutti dicono che sono un tipo strano. Forse hanno ragione, ma sono fatto così, non posso farci nulla. Non riesco a staccarmi dalle mie piccole stranezze per cercare di essere “normale” come tutti vorrebbero. Ma in fondo chi è normale? Il bello è proprio questo: Siamo tutti diversi. Tutti noi abbiamo passioni, hobby e gusti diversi. Alla fine però siamo tutti esseri umani e facciamo tutti parte di questo mondo spietato che giudica senza pietà lasciando dietro di sé solo briciole.
Penso che la gran parte degli esseri umani sia razzista. Potete cominciare a insultarmi, potete chiudere il libro facendo finta di non capire, ma sono sicuro che facendovi un attento esame di coscienza mi dareste ragione. Provate a pensarci: Sin dalle scuole elementari tutti noi abbiamo insultato, preso in giro e isolato qualcuno della nostra classe. Non provate a negarlo. Non ha importanza se si trattasse del secchione, del ciccione o del tipo con i capelli rossi. Forse anche inconsapevolmente, tutti noi siamo stati artefici del dolore di qualcun altro. Ce ne rendiamo conto solo quando la cosa ci si ritorce contro.
Alle scuole elementari ero come tutti gli altri, o quasi. Cercavo di stare nel “gruppo” dei più importanti per non essere preso di mira dagli insulti e dai soprusi. Non ci riuscii. Ero grasso, piagnucolone ed ero diventato lo zimbello di tutta la classe. Ero vittima di scherzi, insulti e altre angherie che non sto qui a raccontarvi. Ero solo contro tutti, e non avevo la forza di reagire. Ero come un ebete trascinato dalla forza degli eventi senza neanche muovere un ciglio. Se mi fossi ribellato, sarebbe stato ancora peggio, avrei subito molto di più.
Pensavo che fosse proprio vero quello che dicono. Spesso le parole fanno più male dei ceffoni. Mio padre mi picchiava spesso perché a scuola andavo abbastanza male, ma mi ferivano molto di più le sue parole. Nonostante ero solo un bambino, diceva che ero un fallito e che se avessi continuato così, sarei finito per vivere in mezzo ad una strada. Però lui non sapeva. Lui non sapeva il mio disagio, quello che ogni giorno dovevo sopportare in quella terribile classe. No, lui non sapeva.
Come se non bastasse, ero l’unico mancino della classe, e fui preso in giro anche per quello, anche se ancora oggi non capisco il perché. Ero diverso ai loro occhi. Potevo provare a cambiare, ma so che comunque non sarebbe servito a nulla. I loro giudizi non mi scalfivano più di tanto, ma so che per colpa loro stavo perdendo la mia autostima. Non mi piacevo più, sia fisicamente, sia mentalmente. Continuavo a pormi mille domande. Perché non riesco ad essere arrogante e presuntuoso come loro? Perché non posso essere migliore di così? Perché io e non qualcun altro? La mia testa pullulava d’interrogativi irrisolti. E poi ci si metteva anche mia madre con la sua innata credenza in Dio e nella Chiesa. Cominciai a frequentare il catechismo e mia madre mi portava in chiesa ogni domenica. Che pizza! Non erano sufficienti i compiti di scuola, dovevo anche sorbirmi la storia di Gesù, Dio e tutti gli altri. Sinceramente non me ne fregava nulla che Noè avesse l’arca per riunire i suoi animali, né tanto meno m’importava qualcosa che Abramo volesse sacrificare suo figlio per volere di Dio.
Lo so. Probabilmente molti di voi staranno storcendo il naso nel sentire queste mie dichiarazioni che all’apparenza possono sembrare assurde. Io però ho le mie ragioni per non credere in Dio e in tutte quelle storielle da cartone animato che la Bibbia ci propina. Provate a pensarci. Voi siete liberi di credere in Dio, Gesù e tutto quello che volete. Potete crederci, ma io continuo a chiedermi: Ne vale davvero la pena? Sin da piccoli ci insegnano che Dio è il bene, ci protegge, ci fa stare bene. Come posso credere nell’esistenza di Dio se ogni giorno vedo guerre ingiustificate sparse in tutto il mondo e che provocano milioni di vittime? Come posso credere in un Dio se ogni giorno ci sono persone malvagie che commettono omicidi e rapine, facendola franca a discapito delle persone oneste? Come posso credere in Dio se ogni giorno ci sono persone che muoiono di fame sui marciapiedi delle strade mentre altri mangiano caviale e salmone a bordo di uno yacht a largo della costa Azzurra? Come posso credere in un Dio se ogni giorno ci sono preti che violentano ragazzini predicando la povertà ma andando in giro con automobili da cento mila euro? No, non ci credo. Non crederò mai nell’esistenza di Dio neanche se avessi le prove. Molti a queste mie considerazioni hanno risposto tutti (pateticamente) nella stessa maniera. Dio non può far si che nel mondo ci sia solo il bene, ma anche il male perché è giusto che noi (poveri) esseri umani proviamo la sofferenza che lui stesso ha provato. Sembra una di quelle patetiche frasi fatte che si sentono spesso nei film o nelle soap opere. Certe discussioni mi fanno solo disgustare. Vorrei proprio averlo di fronte a me questo Dio per scambiare quattro chiacchiere con lui. Gli chiederei il perché dell’esistenza delle malattie, della sofferenza e della morte. Perché? Me lo immagino lassù che ci osserva e ride delle nostre disavventure, delle nostre sofferenze, proprio come in uno di quei reality show che vanno tanto di moda in questo periodo. Se l’avessi dinanzi a me, gli chiederei perché lui ha fatto sì che un ragazzo rom ubriaco uccidesse quattro poveri ragazzini innocenti con il suo furgone. Probabilmente questo ragazzo la farà franca grazie all’indulto o a qualche altra assurda legge italiana (anzi, ora è anche il testimonial di alcuni prodotti). Gli chiederei perché un ragazzo di Torino si è suicidato a causa dei suoi compagni di scuola che lo facevano sentire un “diverso”. Potrei chiedergli mille cose, come la vicenda del ragazzo che ha fatto una strage nell’università della Virginia, se sia giusto che un “uomo” come Bush sia stato a capo degli Stati Uniti per tanto tempo nonostante tutto quello che ha combinato in Iraq (speriamo in Barack Obama ora). Potrei stare ore ed ore a parlare, ma so che comunque avrei sbraitato a vanvera, perché nessuno mi toglie dalla testa che Dio non esiste.
Comunque posso capire chi ci crede. Noi esseri umani siamo preda di eventi che non conosciamo, di vite quotidiane piene d’insidie, ma quello che è più sconvolgente è che siamo soli. Siamo soli, lo siamo tutti. Spesso per non sentirci affranti nelle nostre miserabili vite sentiamo il bisogno di credere in qualcosa di più grande e più potente di noi, sentire il conforto supremo di qualcuno che in realtà nessuno sa con certezza se esiste. Già, l’unica prova certa che abbiamo è che non ci sono prove. Quando ci sentiamo soli, affranti, disperati, sentiamo il bisogno di pregare affinché tutto vada per il meglio. Quante volte ho guardato le stelle, sognando qualcosa di migliore, sognando che qualcosa potesse effettivamente cambiare. Speranze perse nel vento. Quel vento che porta tutto via con sé, senza lasciare neanche un briciolo di speranza. Tutto cancellato. Non rimane più nulla.
Scusatemi se mi sono dilungato, credo di averlo fatto oltre il necessario. Stavo parlando di me e delle mie “disavventure” scolastiche e mi sono lasciato trasportare dal mio perenne ateismo nei confronti della Chiesa (ps non so se questa frase sia grammaticalmente corretta, però a me piace). Tra l’altro vi chiedo scusa perché non mi sono ancora presentato. Io sono Marco, piacere. Dove eravamo rimasti? Ah sì, stavamo parlando delle scuole elementari. Beh, per fortuna quei cinque anni terminarono, con tutte le mie incertezze e timidezze. Ma la cosa più deprimente era la mia solitudine. Non avevo nessun amico.

2
Piccoli segnali di vita

Le scuole medie per me furono come una copia di un qualcosa che era già avvenuto. Tutto cominciò com’era già successo alle elementari. Mi lasciarono in pace quando nella nostra classe venne un nuovo studente, Raouf, un ragazzo tunisino che comunque parlava bene l’italiano perché era di madre italiana. Non credevo si potesse essere così spietati. Lui era la vittima, io non lo ero più. Guardavo lui e rivivevo quello che in passato avevo vissuto io. Soffrivo, volevo intervenire, ma non ne ero capace, mi mancava il coraggio. Dentro di me mille emozioni entrarono in contrasto tra loro, lasciandomi in balia di quell’amara crudeltà che quotidianamente marchiava a fuoco la mia pelle, rendendola vulnerabile. Una pelle sempre più fragile e screpolata, alla quale non sarebbe servito nulla per farla ritornare liscia e pura come una volta.
Passavano i mesi e la situazione non cambiava, fino a quando presi un po’ di coraggio e decisi di intervenire. Ricordo benissimo quel momento. Rimarrà indelebile per sempre nella mia memoria perché fu la prima volta in vita mia che uscivo dal guscio, prendevo una posizione. Il cuore cominciò a battermi all’impazzata, come se stessi per fare qualcosa che avrebbe influito per sempre nel resto della mia miserabile vita. Mi avvicinai ad Alessandro, il bullo in questione, e gli dissi di lasciare in pace Raouf perché non se lo meritava. Mentre lo dicevo, ci credevo, perché per me era vergognoso vedere una persona discriminata solo per il colore della sua pelle. Non potevo sopportare per sempre quegli affronti senza intervenire. Sarei stato un vigliacco per sempre e non avrei mai imparato ad uscire gli attributi quando serviva.
Alessandro indispettito dal mio atteggiamento mi spinse. Fu allora che non ci vidi più. Non ragionavo più, il mio corpo era in balia della pazzia. Gli tirai un pugno in pieno viso, lasciandolo sanguinante per terra. Il suo naso era visibilmente malconcio. La cosa più bella di quella situazione fu il mio improvviso orgoglio. Non credo di averne mai avuto uno prima di allora. Non potevo crederci. Quei pochi secondi sarebbero stati impressi per sempre nella mia memoria come uno dei ricordi più gratificanti della mia memoria. Era il mio primo pugno dato a una persona. Non so il perché ma provai una leggera sensazione di piacere nell’essermi fatto giustizia da solo. Anzi, ho mentito. Provai una forte sensazione di piacere che mi fecero stare per alcuni istanti in paradiso. Un paradiso che però durò poco. Mentre mi crogiolavo nella soddisfazione, non feci attenzione alla reazione di Alessandro. Si alzò lentamente da terra tenendosi con la mano sinistra il naso. Mi osservò con rabbia per un secondo e poi con un destro potente mi tirò un pugno in faccia. Bersaglio colpito. 1-1 palla al centro. Non feci neanche in tempo ad accorgermi del dolore provocato da quel pugno che proprio in quell’istante entrò la professoressa di Storia dell’arte. Io e Alessandro fummo trascinati controvoglia in un’altra aula, per chiarire le cose come stavano e per infliggere eventuali sanzioni. Con me e Alessandro venne anche Raouf che voleva chiarire la sua posizione in merito. La professoressa Marzoratti decise di sentire anche i pareri della classe e, dopo una buona mezzoretta, prese la decisione di mettere una nota a me e ad Alessandro. Ero profondamente deluso. Mi ero esposto per Raouf, avevo trovato quel coraggio che credevo di non avere, e lui, nemmeno mi ringraziò. A dir la verità non mi degnò nemmeno di uno sguardo. Come era possibile? Il mio primo e forse unico atto di coraggio non era valso a nulla? Quel giorno doveva essere ricordato come trionfante, invece lo catalogai insieme alle altre brutte figure della mia vita. Ma forse questa volta la colpa non era esclusivamente mia. Sentivo di non averne responsabilità, almeno non tutte. Forse qualcosa stava cambiando.
I giorni passarono e la situazione era tranquilla, nessuno mi prendeva più in giro, né a me, né a Raouf, ma il silenzio di quella situazione era insopportabile. Decisi di agire. Dovevo fare qualcosa, quel clima estremamente silenzioso poteva nascondere una bufera. Tra la terza e la quarta ora mi avvicinai a Raouf e gli dissi un caloroso <<ciao>>. Lui non rispose e continuò ad ignorarmi.
<<Si può sapere cosa ti ho fatto? Perché mi eviti?>>, domandai irritato.
<<Non ti sto evitando, ti sto solo ignorando.>>
Quelle due parole per me avevano lo stesso significato.
<<Perché?>>, replicai.
<<Perché non mi è piaciuto il comportamento che hai assunto l’altro giorno per difendermi.>>
Ero incredulo, sbalordito. Non solo l’avevo aiutato (da quel momento non veniva più preso in giro), ma mi aveva colpevolizzato per quel gesto. Forse il mondo stava girando al contrario, o forse ero vittima di “Scherzi a parte”.
<<Che cosa avrei dovuto fare?>>, chiesi quasi indispettito.
<<Non dovevi fare nulla. La violenza non è mai la strada giusta.>>
Solo in quel momento mi resi conto che mi ero abbassato al livello di Alessandro. Io che predicavo giustizia, ero stato il primo ad agire in una maniera così misera. Mi sentii un sudicio verme. Avevo commesso un errore imperdonabile. Non ero io. Decisi di scusarmi con Raouf.
<<Scusami, puoi perdonarmi?>>, dissi con profonda sincerità.
Lui si voltò e mi sorrise.
<<Certo!>>
Risposi con un altro sorriso. Da quel momento diventammo amici. Che bella coppia eravamo! Il ciccione e il negro, così eravamo apostrofati da tutti. Comunque ero più sicuro, avevo più rispetto per me stesso, non avevo intenzione di farmi mettere i piedi in testa da nessuno. Quei giorni mi avevano reso più forte.
Le scuole medie scivolarono via tranquillamente o quasi, nonostante fummo promossi entrambi con sufficiente. Io e Raouf ci iscrivemmo alle scuole superiori. Entrambi decidemmo di ritrovarci nella stessa classe, quindi di iscriverci alla stessa specializzazione. Andavamo molto d’accordo, anche se c’era un ostacolo tra noi: la religione.
Lui era un profondo religioso, pregava prima di ogni pasto, andava a messa tutte le domeniche e conosceva tutte quelle storie della bibbia che io definivo da “cartoni animati”. Non mi andava di litigare con lui per l’esistenza di Dio o cavolate varie, anche se sarei stato curioso di sapere la sua giustificazione alle varie ingiustizie con le quali il mondo ci mette ogni giorno a confronto. Il discorso per noi era quasi tabù. Ricordo ancora l’imbarazzo che provai quell’unica volta che fui ospite a cena dalla sua famiglia. Ero imbarazzato, mi chiesero di dire la preghiera prima di cominciare a mangiare. Il panico s’impossessò di me. La verità era che non la sapevo bene, e allora m’inventai la scusa di essere senza voce. Che figura di merda che feci! Li guardavo in silenzio senza neanche fiatare. Mi sembravano degli extraterrestri. Speravo di non provare ulteriori disagi quella sera, ma invece… Subito dopo cena loro cominciarono a parlare di Dio, Gesù, della bibbia e di tutte quelle storie che io non sopportavo. Il padre di Raouf cominciò a parlarmi della Torre di Babele, Mosè ecc. Mamma mia che noia! Feci in modo di non farmi più invitare a cena. M’inventavo sempre qualche scusa: Mi fa male la testa, devo andare a un compleanno, devo studiare, mia madre non vuole. Queste erano solo alcune tra le scuse da me inventate. Comunque a parte questo, io e Raouf andavamo molto d’accordo. Almeno così sembrava.
A scuola filava tutto liscio, forse troppo, non mi sembrava vero che stessi vivendo un momento così sereno. Era solo un fuoco di paglia? Lo scoprirete presto. Naturalmente quello è anche il periodo delle prime cotte, dei primi amori. Mi ero innamorato di una persona già alle scuole medie, ma non l’ho mai detto a nessuno e non lo farò nemmeno con voi, almeno per ora. Forse di voi posso fidarmi. Se vi racconto le cose come stanno, promettete di non dirlo a nessuno? Va bene, mi fido. 

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